Roma, Comunali 2021: la Raggi si ri-candida, il Pd traccheggia e la destra avanza

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Dalla fine di questa settimana la temperatura dovrebbe calare, mentre rimane caliente nel circuito politico alle prese non solo con il Covid, ma con una ripresa autunnale che si presenta molto difficile.

Di qui un dilagare di interviste, commenti, analisi e previsioni sui media che paiono più un chiacchiericcio fra gli addetti ai lavori che motivi di reali interessi per la gente alle prese (negazionisti esclusi) con la paura della ripresa della pandemia e i problemi per sbarcare il lunario. 

Ovviamente in questo contesto le elezioni comunali a Roma assumono una valenza particolare, un rilievo, come afferma Zingaretti nella sua intervista al Corriere, “nazionale e internazionale”. Anzi, lo stesso governatore e segretario del Pd dice con chiarezza che la scelta del candidato sindaco del suo partito avverrà dopo il referendum per la riduzione dei parlamentari e le regionali che rischiano di far perdere alla sinistra due regioni importanti quali Marche e Puglia.

E mentre si susseguono le strategie, meglio dire le tattiche di potere, per definire un rapporto con i 5stelle che hanno affossato ogni ipotesi di collaborazione con il Pd eccetto che in Liguria, c’è chi nell’agone politico si pone in gioco anticipando tutti sul pallone, anche se difficilmente andrà in porta.

Parliamo di Virginia Raggi sindaca di Roma che era partita all’attacco con grande anticipo, confermando la sua ri-candidatura ben prima che venisse unta da Grillo e Di Maio. Nonché dalla misteriosa piattaforma Rousseau dove poche decine di migliaia di “militanti” (sic) pentastellati derogavano alla ferrea (risic) legge del secondo mandato e non oltre, aprendo alle alleanze territoriali (leggasi Pd), che nel frattempo aveva incassato malamente il rifiuto di alleanze per le regionali del 21 settembre.

Una scelta che ha favorito il proliferare di, almeno per ora, fantasiose illazioni su un patto segreto Raggi/Zingaretti magari per uno spostamento dei consensi dalla sindaca al candidato del Pd in sede di ballottaggio. Soluzione peraltro inevitabile e tutta da verificare perché, a dir poco, la cosiddetta base elettorale pentastellata è fluida ed indefinibile.

Escluso che i Democratici sostengano Virginia al primo turno per non perdere la faccia e soprattutto un botto di voti, si sono susseguite indiscrezioni, spifferi e pettegolezzi che paiono fatti più per bruciare i nomi che appaiono con insistenza sulla stampa più che fondati su reali intenzioni politiche.

Ma tant’è, le cronache debbono pure campare e visto che al 50% vivono di politica, nei suoi ambienti e salotti ci sguazzano.

Di qui un fiorire di nomi. Il primo ad esporsi fu mesi fa il deputato Dem Morassut che vista l’aria che tira pare abbia fatto marcia indietro. Escluso Enrico Letta che a Parigi ci sta benissimo (Covid permettendo), il grande tessitore (o king maker come lo definì esageratamente qualcuno) Goffredo Bettini tira fuori il nome di David Sassoli che dovrebbe immolarsi abbandonando il prezioso scranno di presidente del Parlamento Europeo.

Poi salta fuori il nome dell’ex ministro del Governo Renzi Carlo Calenda, eletto eurodeputato con una valanga di preferenze grazie al Pd e oggi battitore libero con un suo partitino. Lui nega, ma ancora ieri Giachetti, già trombato dalla Raggi alle scorse comunali e confluito nel partitino di Renzi, tira fuori il suo nome o in alternativa quello di Fuentes sovrintendente dell’Opera di Roma (frequentatissima dal popolo delle periferie) che già Calenda aveva indicato qualche settimana fa.

Nel frattempo nelle retrovie a sinistra ci si agita e si parla di inevitabili primarie, lo sbilenco toccasana che dovrebbe essere il sale della democrazia e invece si traduce spesso nella ratifica di nomi vincenti già decisi dalla segreteria del Pd.

Qui potrebbero parteciparvi tutti gli aspiranti fra i quali spunta Michela Di Biase, oggi consigliera regionale e prima capo gruppo Pd in aula Giulio Cesare, ma per ora non si vede una folla di ben intenzionati a partecipare alla competizione che è un po’ un gioco al massacro. Forse fra i benintenzionati il prof. Caudo già assessore all’urbanistica con Marino e attuale minisindaco del terzo municipio e la minisindaca del primo Sabrina Alfonsi.

Certo che per Orfini (già sodale di Renzi e oggi all’opposizione di Zingaretti sulla sua linea dell’alleanza con i 5stelle) le primarie sono irrinunciabili, con lui tutta la sinistra sinistra rappresentata da Leu e dai seguaci dell’ex vice presidente della Regione e oggi euro parlamentare, Massimiliano Smeriglio che sulle scelte di Zingaretti ha sempre avuto una certa influenza. 

Ma qui finisce la danza, perché tutti gli attenti commentatori fanno i conti senza l’oste, come se ormai la via della vittoria del Pd almeno al secondo turno, fosse scontata. Eh sì perché l’oste se ne sta quatto quatto e aspetta il momento buono per presentare il conto. Parliamo della destra Salvini/Meloni, perché aggiungere “centro” alla destra, ci pare inutile vista l’influenza al lumicino della Forza Berlusconi di Tajani. 

Anche qui tocca fare dei distinguo perché se prima della formazione del Governo Conte bis la Lega di Salvini tirava alla grande nelle periferie, come dimostravano alcuni dati delle più recenti elezioni nei municipi, oggi chi traina veramente la destra a Roma è Giorgia Meloni che nella Capitale ha solide e ancestrali radici dal neofascismo capitolino in poi.

Certo, lei non si candida per un piatto di lenticchie a Roma quando potrebbe, almeno nelle intenzioni, ottenere peso ministeriale in un futuro governo della Destra e poi i sondaggi la vedono pericolosamente (per lui) avvicinarsi ai livelli elettorali di Salvini battendo addirittura il capitano negli indici di gradimento del popolo.

Rebus sic stantibus cullarsi nell’illusione che un nome forte del Pd possa prendersi il piatto potrebbe risultare nefasto se oltre alle primarie, non si aprisse in città una discussione, un confronto serio su cosa è successo in questa Capitale in decadenza nel rapporto molecolare cittadini consenso politico. 

Perché i guasti alla vita (diremmo alla sopravvivenza) urbana sono del tutto evidenti, ma non solo riconducibili alla sprovveduta gestione grillina dei processi e della struttura amministrativa. Se così non fosse la Raggi non avrebbe vinto nel 2016 e non solo per la pompata vicenda della cosiddetta “mafia capitale”.

Che fare? L’ha sempre sostenuto Zingaretti, ma ben poco ha fatto in proposito, c’è tutto un tessuto sociale che va oltre i circoli e le camarille di partito. Parliamo di associazionismo, sindacati, associazioni di categoria (non sempre corporative)  scuola, università che sono il fiore all’occhiello di Roma. E ancora volontariato cattolico e non, mondo dello sport dilettantesco di base sino ai circoli anziani. Certo poi c’è la vivacità del mondo dello spettacolo, dell’intrattenimento della cultura (in verità molto spenta negli ultimi anni) che non è solo Rai, ma un mondo prostrato dalla crisi di cinema e teatri piegati dalla pandemia.

Se non si passa da questa mobilitazione fatta di discussione, confronto e anche scontro  non basterà alla sinistra il nome “forte” (magari sostenuto dai poteri forti) per vincere soprattutto se la destra si inventerà un competitor originale non maturato nella tradizione del destrismo romano.

In fondo i temi che il duo Salvini/Meloni cavalcherà già sono noti, basti leggere alcuni organi di stampa che li sostengono: disastro Raggi, monnezza, trasporti, immigrazione, zingari, ordine pubblico. Una facile cavalcata fra il disagio, le paure e talora la rabbia di tanti cittadini spesso svantaggiati. 

E allora? Fuori dalle tattiche e dal chiacchiericcio e si cominci a pensare ad un programma potabile anche per noi comuni mortali. Gli elettori non sono scemi e, anche a pelle, comprendono quali sono i loro veri interessi e chi è in grado di affrontarli.

Giuliano Longo

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