Asian Film Fest: da Hong Kon (fuori concorso) “The Fallen”, un thriller che avvince ma non convince

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Ancora da Hong Kong il lungometraggio del giovane regista emergente e indipendente Lee Cheuk – pan presentato nel corso dell’Asian Film Fest alla Casa del Cinema di Roma. 

The Fallen è la storia piuttosto contorta e irrealistica di sesso, droga e violenza  ambientata attorno al caos che per la successione che coinvolge i leader di un potente sindacato criminale internazionale.

Lo screen play è di per sè già poco credibile, infatti più di 20 anni dopo essere fuggita dal padre padrone della droga “il Don”, la tossicodipendente cronica Rain Fuyu (Irene Wan), rivendica il ruolo di leadership familiare come prediletta e istruita dal Don in tutte le arti del crimine, dopo la morte presunta (ma si chiarirà solo nel finale) di questo padre.

Rain incontra la 23enne Snow Fuyu (Hanna Chan), che crede di essere la figlia illegittima del Don, mentre Rain nel corso della vicenda, si svela essere una importante e riluttante informatrice della polizia.

In particolare di una ispettrice che verrà massacrata dallo zio Vulcan (Eddie Chan)   che pretende la primazia su un Cartello che estende i suoi tentacoli non solo ad Hong Kong, ma in molti Paesi del sud est asiatico.

Vulcan, astuto e crudele, contrasta le pretese del figlio adottato da Don ed “educato all’estero”, Tempest (Kenny Kwan)  che nel corso del film si esprime per lo più in inglese, attratto sessualmente da Rain assediata da allucinazioni tossiche e da ricordi della sua infanzia. Quando era considerata una pupilla da quel Don che allevava una scuderia vera e propria di minori definiti “discepoli”. 

Ne consegue una storia confusa nonostante lo scialo di effetti speciali e rappresentazioni oniriche che comunque sopperiscono alla scarsità di mezzi con cui il regista ha dovuto fare i conti. 

Ma proprio per questo “The Fallen”, che avrebbe tutti gli ingredienti a disposizione per un memorabile thriller sul cartello della droga (grazie ad una regia di indubbio mestiere) si accontenta di un ritratto iperbolico del male – che coinvolge tutto, dagli abusi sui minori all’incesto e alla necrofilia – nello sfondo di una megalopoli alla fin fine gigantesca, ma triste e asettica più che spietata. 

Potrebbe rappresentare un buon film d’essai, purtroppo esprime invece “un’ansia di prestazione” con la sua depravazione che vorrebbe scioccare un largo pubblico, secondo gli stilemi del cinema da cassetta. 

Tecnicamente fa un uso anche eccessivo della manipolazione dei toni di colore e di immagini quasi caleidoscopiche che si incastrano nella trama complessiva rendendo spesso faticoso seguirne la narrazione che scarta da un tempo all’altro con eccessiva disinvoltura. 

I personaggi maschili e femminili, che con il loro comportamenti dovrebbero suscitare sensazioni forti, spesso finiscono per risultare grotteschi, almeno per i nostri gusti occidentali, ma nemmeno riescono ad esprimere quelle scavate maschere espressioniste che sono nella tradizione di molto cinema asiatico.

Giuliano Longo 

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