C’era una volta lo Chef Gualtiero Marchesi

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A Milano è un tiepido sabato sera di fine settembre ed è la serata che tanto aspettavo, per poter finalmente cenare a casa del maestro: Marchesi alla Scala.

La piazza è deserta e io sono in anticipo di venti minuti rispetto all’ora per cui ho prenotato, ma l’avvolgente desolazione convince me e la mia compagna a entrare. Sono le ore 20.40 e ancora non so ancora che ricorderò per molto tempo questa cena.

Superando la porta d’ingresso si apre una sala non grandissima, ma connotata da una piacevole e sobria eleganza. Gli arredi e la disposizione dei tavoli danno a tutto l’ambiente un gusto fané. Solamente un tavolo è occupato, da avventori asiatici.

Mentre osservo la sala, mi accorgo che nessuno è venuto ancora ad accogliermi. Sono fermo in piedi davanti alla cucina a vista e una persona seduta (quasi sdraiata) a un tavolo a destra dell’entrata è ancora lì: peccato che poi scoprirò che il “poltrone” è il maitre. I minuti passano in una sconcertante e desolata attesa fino a che uno dei due cuochi è costretto a uscire dalla cucina e a darci il benvenuto.

Il maitre ci accompagna al tavolo e ci consegna i menù. Immaginavo di poter sfogliare una carta con filigrana pregiata e di leggere una lista di piatti che mi avrebbe riportato alla memoria gli albori della rivoluzione culinaria del maestro… mi viene, invece, consegnato un tablet in cui navigare il menù in maniera interattiva. Scelta, a mio avviso, del tutto fuori luogo: la commistione tra vecchio e nuovo (tra tradizione e innovazione) ha tolto immediatamente l’identità alla location, ancor prima di assaggiare i piatti dello Chef.

Mi alzo per andarmi a lavare le mani e noto che i commensali del tavolo a fianco del tendaggio che porta ai bagni hanno lasciato stendere a terra un cane di circa 40 kg, con la sua ciotola dell’acqua. Il secondo intoppo della serata vieta a me e a tutti gli altri clienti del ristorante di utilizzare il bagno per tutta la serata, ma ci permette di assistere alle acrobazie del personale di sala.

La carta dei vini, in versione cartacea, si traduce nel terzo spiacevole intoppo della serata. Tralasciando il fatto che il momento della scelta del vino abbia coinciso con il disvelamento della doppia identità del maitre (che ha indossato anche la maschera da sommelier) e dalla eccezionale moltitudine di pallini bianchi che indicavano la mancata disponibilità della metà dei vini presenti in carta, ci vorranno venti minuti per riuscire a bere qualcosa.

La mia compagna non ha molta voglia di bere e quindi opto per un semplicissimo Lagrein (in carta con un prezzo triplicato rispetto allo scaffale, ma fortunatamente, senza nessun pallino a fianco).

Dopo aver preso l’ordine, il maitre / sommelier torna al tavolo per avvertirci che l’annata presente in carta era terminata e noi acconsentiamo all’offerta dell’annata successiva. Dopo cinque minuti torna di nuovo scusandosi dell’equivoco ma ha confuso la nostra bottiglia con quella ordinata dal tavolo alla nostra destra e assicurandoci che ci avrebbe portato quanto richiesto. Passano una manciata di minuti e con l’espressione distrutta, ci avverte che si è sbagliato ancora e che purtroppo della cantina da noi scelta non ha nessun vino.

Esausti da questa tannica diatriba, decidiamo di ordinare singoli calici di vino, sincerandoci della disponibilità degli stessi. Insieme al vino ci viene offerto un entrée dello chef: L’uovo nell’uovo.

Dopo essere finalmente riusciti a fare un brindisi, procediamo nell’ordinare le pietanze scelte.

La mia compagna sceglie due portate: una piramide di riso nero con verdure e gamberi e un baccalà mantecato con polenta arrostita.

L’antipasto di riso nero è estremamente semplice ma fresco e gradevole al palato. Il baccalà mantecato soddisfa le aspettative e fortunatamente, non viene servita una quenelle, come ormai la ristorazione ci ha abituati.

                     

Io voglio scegliere due portate che fanno parte della storia di Chef Marchesi: il Raviolo aperto e il Filetto alla Rossini.

Il raviolo è ben fatto: la pasta è ben tirata e cappesante e sogliola ben cotte. I sapori sono sufficientemente  delicati e nettamente distinti, con l’aroma del burro che ragionevolmente  avvolge il palato. L’unico interrogativo rimasto è se la sogliola faccia davvero parte della ricetta originale.

Il quarto intoppo arriva, purtroppo, con il filetto. Mi sento obbligato a premettere che il filetto alla Rossini è uno dei piatti per cui Chef Marchesi è considerato il fondatore della nuova cucina italiana, colui che ha stravolto la nouvelle cousine.

Mi viene servito un filetto apparentemente bollito, senza sale e con del foie gras umido e molle. Il tutto condito con una pessima salsa al porto e tartufo nero: il vino liquoroso non è stato ridotto deglassando gli zuccheri della carne, ma versato completamente liquido. Lo scorzone è morbido e insapore.

Dopo il vano tentativo di correggere il filetto aggiungendo del sale, mi arrendo all’immangiabilità del piatto.

Il personale di sala prende coraggio e mi chiede come mai non sto mangiando e se c’è qualcosa che non va nel piatto. Solitamente rimando sempre indietro un piatto sbagliato e fin dal primo boccone, mi rendo però conto di non avere il coraggio di mandare indietro un piatto del maestro. Rispondo, strizzando l’occhio, che non ho più fame e lascio il filetto nel piatto senza dire nulla.

La cena si conclude, ovviamente, senza ordinare il dolce e ci viene offerta una piccola pasticceria.

L’unica ma significativa nota positiva della serata è stato il conto, in cui non vengono conteggiati il filetto e il calice di vino rosso ordinato insieme. Dato che non ho rimandato indietro nessun piatto, avrebbero potuto anche conteggiare la cena completa; ma il personale di sala, durante il pagamento, ammette i propri errori con il beverage e si scusa da parte della cucina per il filetto.

Non so se quella di stasera è stata una negativa coincidenza, ma una cosa è certa: lo chef ha ormai 87 anni e la sua assenza dai fornelli è evidente. L’aver disposto in sala  sue foto e gadget, non basta a trasmettere la sua presenza. Difficilmente, chef del calibro di Marchesi, farebbero uscire piatti così sbagliati da essere poi costretti a cancellarli dal conto: la cucina è un’esperienza sensoriale e le sensazioni, nel bene e nel male, persistono nella memoria.

Una seconda possibilità? Sì, forse sì…

Andrea Pantagruel

 

 

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