Intervista a Pablo Trincia: dal mondo delle “Iene” a quello dei “Lupi”

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Preferisce essere chiamato documentarista che giornalista, ma l’impressione è che stringere Pablo Trincia in una perfetta definizione sia impossibile. E già solo parlando della sua nascita, della sua famiglia e dei luoghi in cui è cresciuto si capisce il perché. Padre italiano e madre persiana, ma lui è nato a Lipsia nel 1977, in quella che all’epoca era la Germania dell’Est. È italo-iraniano ed è cresciuto a Milano, e ha lo stesso nome di Neruda, un gentile omaggio al poeta cileno. Al momento è in tv la domenica in seconda serata sul canale Nove di Discovery Italia con “Lupi – Limited Access Area”, ma sta preparando due nuovi programmi “I cacciatori” sempre per il canale Nove e “Mai più bullismo” per Rai Due. Insomma l’ex Iena ha lasciato la sua “palestra” di Italia Uno e viaggia a passo spedito.

Quanto ha influito sulla sua formazione personale questo mix di culture in cui è cresciuto?

«Tantissimo, ti spinge verso una direzione, ma mi ha anche aiutato tanto. Sicuramente avevo una predisposizione, ma tutto questo mi ha permesso di coltivare la mia passione per le lingue. Adoro impararne di nuove, un po’ per hobby e un po’ per lavoro. È una cosa che mi riempie l’anima».

Sa il tedesco, l’italiano e l’inglese, oltre allo spagnolo e al francese. Parla hindi, swahili, wolof e ha  una conoscenza base del portoghese e del farsi. Ha studiato a Londra lingue e letterature africane alla School of Oriental and African Studies, prima di rientrare a Milano e cominciare a collaborare con alcune testate giornalistiche italiane e internazionali proprio occupandosi di America Latina, Asia e Africa.

Da dove nasce la passione per queste terre?

«Mi hanno sempre affascinato, e infatti ho studiato a Londra proprio lingua e letteratura africana. Volevo lavorare nelle organizzazioni non governative in questi paesi, poi invece ho cominciato a raccontare le loro storie per caso. Ho viaggiato e viaggio molto per lavoro, le storie e i documentari sono una passione pura, e devo dire che poi al di là dei luoghi è sempre e solo la storia che ti appassiona. Conoscere le lingue, o meglio la lingua di chi vai a intervistare ti permette di conquistare di più la fiducia delle persone. In quel momento non hai barriere, sei un po’ uno di loro. Diventi la lingua che parli, assumi i gesti e i toni. Avviene una trasformazione, anche nel pensiero, entri in sintonia. Il non poter interagire invece ti allontana».

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Inviato per Le Iene (Italia 1), per Servizio Pubblico e Announo (La7), ha realizzato tantissimi servizi di grande spessore. Che esperienze sono state e a quale inchiesta è più legato?

«Con Le Iene sono cresciuto professionalmente e come uomo. È stata una grandissima esperienza e sono rimasto con loro per cinque anni. Contava molto l’audio, ma anche filmare magari una truffa proprio mentre avveniva. Non era facile, ma lì ho imparato molto. A Servizio Pubblico e Announo invece c’era un altro linguaggio, una narrazione per immagini, un grande lavoro “video”. A quale servizio sono legato? Difficile dirlo, va a momenti. Direi però che forse quello che è venuto meglio è “Bambino per Bambino”, il reportage sulla mamma che cercava il piccolo Ismail, portato via dal papà in Siria».

Inchiesta per cui ha vinto il premio Luchetta, oltre a due riconoscimenti intitolati a Ilaria Alpi per i reportage “Krokodil, la droga che ti mangia” e “Infiltrato tra i profughi afghani”.  Ha mai avuto paura girando i suoi reportage?

«Qualche volta, ma la paura più grande è sempre stata quella di non fare un lavoro buono, intenso appassionante, emotivo, non paura intesa come sicurezza. La mia preoccupazione era per altro».

Come convince la gente a farle raccontare la sua storia?

«Si va sempre in giro con qualcuno che conosce posti e persone, un gancio, sia per questioni di sicurezza e sia perché hai bisogno che si fidino di te per farli aprire e raccontare la loro storia. Le espressioni si sentono e si vedono in tv».

Quanto lavoro c’è dietro un’inchiesta? In quanto tempo “la porta a casa”?

«Dipende, a volte ci vogliono quattro o cinque giorni, altre volte un mese intero. Si gira tanto e poi si seleziona. Io calcolo che per un buon lavoro finale di media devo avere almeno tre minuti da portare a casa ogni giorno per due settimane di riprese».

Questa sera va in onda la terza puntata di Lupi alle ore 23, un ciclo di documentari internazionali. Dopo “Il Cacciatore di pedofili” e la prima parte di Amazzonia Criminale con l’episodio “La valle della cocaina”, tocca al secondo capitolo “I tentacoli del narcotraffico”. Come sta andando il programma?

«Abbiamo registrato dei buoni dati di ascolto con la messa in onda delle prime due puntate. C’è fame di storie e noi abbiamo scelto le sei migliori. Io cerco di fare da collante, italianizzando un po’ questi documentari che sono produzioni straniere e quindi sono stati doppiati».

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Lupi andrà in onda tra nuove puntate e repliche fino quasi a metà settembre (solo il 14 agosto il programma lascerà il posto a un’altra trasmissione). Ma lei sta preparando ora due nuovi appuntamenti televisivi, uno su Rai Due sul tema del bullismo e l’altro sempre per canale Nove  insieme a Valentina Petrini. Cosa può anticiparci?

«“Mai più bullismo” è un programma on the road in cui cerchiamo di raccontare storie di bullismo e di aiutare le vittime a uscirne fuori. “I cacciatori” invece è ispirato a Ismail, nel senso che è una programma in cui aiutiamo le persone a cercare qualcuno per un motivo qualsiasi. Ma si tratta di una “caccia alle persone” che facciamo insieme, e ha uno stile un po’ più cinematografico».

Cosa guarda in tv Pablo Trincia?

«I documentari ovviamente, le serie tv straniere, in particolare quelle americane. Sono insuperabili come narrazione. Guardo molto Netflix, qualche fiction e le serie radiofoniche. E poi l’Nba di basket, non seguo il calcio, e quando in America cominciano i play off cerco di non perdermi una partita».

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