Era davvero edificante vedere già da domenica il giusto compiacimento delle autorità, prefetto, questore, sindaco, per il modo in cui la città ha affrontato e accolto prima lo tsunami di pellegrini convenuti per la beatificazione di papa Wojtyla e poi la Woodstock di tanti giovani per il concerto del primo maggio. Un malcelato compiacimento, pacche sulle reciproche spalle, un congratularsi l'un l'altro per l'efficienza delle forze dell'ordine, l'abnegazione dei volontari, l'organizzazione dei servizi comunali che hanno consentito di reggere degnamente l'urto di milioni di persone convenute e sciamanti per ogni angolo della città. Un tripudio per l'economia del panino e della lattina, un balzo nella produzione di paccottiglia (souvenir magliette gadget) un boom per l'hotelerie di preti e suore che ha accolto gran parte dei pellegrini convenuti da tutto il mondo. E mentre i media trasudavano ossessivamente pietas cristiana e intensa devozione, bombardandoci di immagini rituali per la beatificazione e, più limitatamente, di suoni e percussioni del concerto, ci siamo resi conto dello sforzo organizzativo e dei costi a perdere che la città di Roma, la sua amministrazione ed in definitiva i cittadini contribuenti hanno finito per pagare (senza batter ciglio).
Eppure nel segno della santità e della potenza della chiesa, tutto ha funzionato. La città ha retto, superando anche l'evento della beatificazione che la destra, da Alemanno ar "popolo de Roma" aveva fatto suo in un grondare di insopportabile retorica nei manifesti, sulle pagine dei giornali e nelle immagini televisive. Una manifestazione di forza, una suggestione collettiva, una ostentazione di riti e paramenti per un "beato" che dei media, dell'immagine, e dell'evento ha fatto uso illimitato, per la prima volta nella storia della Chiesa. Eppure superata la sbronza emotiva di molti, anzi moltissimi, fuori dal coro appunto, un dubbio ci ha assalito. Come è possibile, ci siamo chiesti, che una città così devota, accogliente, organizzata, civile a ben vedere, cada nel panico e nell'isterismo mediatico quando si tratta di far transitare a Termini qualche centinaio di tunisini o di sistemare degnamente e senza smembrarle, qualche decina di famiglie rom?
Cosa turba i sonni del giovane Alemanno e dei suoi camerati che entrano nel panico quando si tratta di organizzare l'accoglienza per pochi disgraziati, pochi rispetto ai milioni di persone che hanno invaso gratuitamente Roma. I pochi costretti a sfuggire dalle guerre e dalla fame? Sgonfiate la retorica e la pompa, dismessi i paramenti rituali e le magliette del Che, si misura la pochezza cristiana e solidale di tanti romani, forse la maggioranza, che alla miseria di molti oppongono il rifiuto e l'esclusione. Qui finiscono le pacche sulle spalle, l'auto compiacimento e subentra la discriminazione e la repressione istituzionale, spesso invocata dal "popolo". Così il neo convertito sindaco Alemanno, che ieri ha ringraziato «i romani e i pellegrini» per «la pazienza», la «disciplina» e la «serenità» dimostrate, alza barriere e il solerte prefetto manda i suoi agenti in assetto di guerra per bloccare l'onda immaginaria dei barbari. Immaginaria ma utile a raccattare i voti del razzista che è in tutti noi.
E mentre si raccolgono tonnellate di spazzatura abbandonate da pellegrini e festaioli, pur sempre consumisti, ci tornano alla mente quei barconi pieni di disperati che qualche idiota para fascista sui giornali della famiglia Berlusconi e sulla Padania, ha raffigurato in casual griffati ed occhiali Rayban. Così come immaginiamo le centinaia di corpi in pasto ai pesci nelle profondità del canale di Sicilia, corpi in precedenza ammassati nei campi dell'amico Gheddafi, nel deserto, in condizioni inumane in attesa del viaggio senza destinazione e ritorno. Vediamo tutti questi corpi attraversati dall'indigenza, dalla paura, dalla violenza; carne da macello il più delle volte. E ci chiediamo quale cancro spirituale corroda tanti cittadini di questa Roma pia, devota e accogliente, prona a fronte di riti mediatici, ma escludente e incattivita di fronte alle tante miserabili povertà. Pregare non costa, sono le "opere" che pesano.
Giuliano Longo